Secondo un Ansa di qualche giorno fa, la Consulta (con sentenza numero 72/2025 del 25 marzo, depositata il 23 maggio) la Corte Costituzionale ha respinto tutte le questioni di legittimità sollevate dal Cga in ordine all’articolo 2, comma 3 della l.r. 15 del 1991 che sancisce l’applicazione erga omnes e immediatamente efficace del divieto assoluto di edificazione entro i 150 metri dalla battigia, previsto dall’articolo15 della legge regionale n.78 del 1976». In sostanza, come ci dice Legambiente Sicilia, attraverso il suo presidente, Tommaso Castronovo, «ora si può finalmente procedere alla demolizione degli edifici abusivi ancora presenti lungo la nostra costa, restituendo alla naturalità dei luoghi le nostre splendide spiagge».
Quasi inutile dire di come questa notizia sia poi ulteriormente deflagrata sulle colonne della stampa locale e nazionale, oltre che nel dibattito politico e cittadino di molti territori costieri della provincia di Trapani, in specie a Marsala dove, oltre al deturpamento della natura in sé, questa edificazione selvaggia iniziata nei primi anni ’70 e ’80 ha negato alla città anche la possibilità di avere una delle più lunghe e ininterrotte marine di tutto il Mediterraneo, coi suoi 14 chilometri di costa, da Norda a Sud. Tuttavia, una cosa che anche stavolta la stampa, la politica e la cosiddetta società civile dimenticano di sottolineare è come detto fenomeno sia stato (e sia), purtroppo, un evidente fenomeno di massa, tanto diffuso da aver direttamente o indirettamente toccato quasi tutte le famiglie marsalesi.
Chi di noi, compreso chi adesso vi scrive, potrebbe dire di non aver mai passato una bella giornata in una di quelle villette, magari ospitati per una grigliata sulla spiaggia senza nemmeno sporcarsi i piedi o un aperitivo dalla veranda a pochi metri dal dolce rumore della risacca sul bagnasciuga? Ovviamente, sempre guardandoci bene dal giudicare, dal criticare, dal chiedere spiegazioni o, financo, da qualsivoglia invito a riflettere. D’altronde, si sa, a Spritz offerto e servito, non s’infila manco il dito. Figuriamoci quell’altro tipo di scortesie! E neanche alcune categorie professionali, come quelle degli architetti, ingegneri e geometri, possono reclamare alcuna estraneità allo scempio che abbiamo tollerato.
Eppure, come sempre, c’è una grossa fetta della società italiana che ritiene che qualsiasi nostro ritardo culturale possa o debba esser curato ed emendato solo attraverso la scure di un percorso giudiziario. Che è certamente importante, oltre che giusto e legittimo, ma mai risolutivo delle questioni di malcostume, soprattutto quando detti procedimenti si allungano a dismisura, portando così le sentenze a punire più le generazioni che quella situazione hanno ereditato che i primi colpevoli.
Di fronte a un fenomeno così vasto, e senza che questa appaia come un subdola accettazione della società che ci hanno costruito o che noi non abbiamo voluto o avuto la forza di cambiare, una soluzione potrebbe essere ravvisata da una pratica sanzionatoria vasta e severe ma che appaia, con gli occhi dell’oggi, un po’ meno vendicativa di quella che vorrebbe rader al suo le centinaia e centinaia di costruzioni illegittimamente elevate, da almeno trenta o quarant’anni, sul versante costiero.
Non si tratterebbe certo – e ci mancherebbe – di perdonare l’errore di chi ha commesso un‘irregolarità grave, ma credo sarebbe anche giusto e opportuno che, in specie nel caso di Marsala, la società tutta fosse costretta ad assumersi la responsabilità di aver offerto e goduto di enormi complicità nel permettere, complessivamente, questo grandissimo abuso a cielo aperto.
Il cemento, a dire il vero, era divenuto per noi proprio allora (negli, a volte favolosi, a volte terribili anni ’70) come una terribile moda, il vezzo che, in altro ambito, rappresentava la Coca Cola quasi orgogliosamente messa in tavola dai nostri padri e dai nonni, almeno per dare plasticamente una qualche ingenua prova non solo di esser sopravvissuti al passato ma di poter maneggiare anche un po’ di quella modernità che gli era piombata addosso senza accorgersene. Non importava se al costo di sacrificare, persino quando non serviva, una trave in legno o la vecchia e salutare gazzosa dell’infanzia. E, d’altronde, persino in uno dei più importanti parchi archeologici della Sicilia, come quello marsalese del Boeo, in quegli stessi anni, si pensò a una grande orribile copertura in cemento armato per proteggere i meravigliosi mosaici della Villa Romana, i quali ne uscirono così effettivamente meglio custoditi ma anche prigionieri e mortificati nella loro libertà di mostrarsi nel loro reale splendore. E tralasciamo dei preoccupanti segni di cedimento che oggi persino mostra.
Ma, tornando all’attualità del problema sollevato dalla sentenza della Consulta, almeno così come oggi ci appare sedimentato dopo anni di incuria e aggressione selvaggia al nostro litorale, occorre preliminarmente farsi alcun domande. Riteniamo credibile, ad esempio, che lo Stato possa abbattere tutta la prima, e forse seconda, fascia costiera di case, per circa una decina di chilometri, fermandosi solo alla città lilbetana? A che prezzi per la convivenza sociale e per le casse pubbliche? E in quanti anni? Con quale accumulo di altre brutture o di incidenti tra cittadini o tra essi e le autorità? Con quale garanzia che non si finisca, affrontando così brutalmente la malattia in un organismo fiaccato da così tanti anni di brutture, di azzannare pure il malato? Non sarebbe la prima volta che una burocrazia inaffidabile come la nostra finisca per commettere più abusi di quelli che, teoricamente, si vorrebbero sanare.
A voler fare un esempio di come si potrebbe metter giù la questione, dunque, naturalmente contemperando tutte le esigenze di una società complessa e difficile, ancorché ingiusta, meglio sarebbe il sottrarre, ad esempio, qua e là, più di qualche metro ai giardini delle case ritenute abusive, con una serie di espropri a conguaglio delle probabili sanzioni da pagare per le irregolarità commesse. E, al contempo, obbligare i sanzionati a una nuova procedura di sanatoria che preveda un maggiore abbellimento di ciò che gli sarebbe lasciato, magari con opere di riqualificazione del verde o di ulteriore piantumazione dell’area.
Così, al mare, a fronte di tante aree pubbliche o chiani restituiti alla città tra le tante case sul litorale, ognuna di queste costruzioni, lasciate “nude”, senza giardino o la veste di una qualsiasi recinzione, non solo eviterebbe di togliere “il tetto” a chi, seppur illegalmente, se l’era costruito, ma lascerebbe lungo tutta la costa, e a imperitura memoria, le tracce urbanistiche e paesaggistiche di un chiaro e monumentale monito affinché non si tornino nuovamente a commettere tali errori. Senza, nel frattempo, neanche scordare l’altra importante questione del veloce ripristino dei tanti passaggi di accesso al mare, da anni illegittimamente chiusi e, altrettanto abusivamente, sottratti alla pubblica utilità.
Ninny Antonino Aiuto