C’è un momento in cui la parola “salute” ha smesso di essere un augurio e si è trasformata in un imperativo. È successo gradualmente, quasi senza che ce ne accorgessimo. Oggi non basta più stare bene: bisogna allenarsi, contare le calorie, eliminare qualsiasi piccolo rischio dalla propria vita. E in questo clima di allarme continuo, persino un bicchiere di vino è diventato oggetto di sospetto. Ma davvero ogni goccia di alcol rappresenta un pericolo mortale? O forse stiamo perdendo di vista qualcosa di più profondo, un equilibrio antico che la parola stessa custodisce da millenni?
Partiamo da lontano. “Salute” viene dal latino salus, salutis, che a sua volta affonda le radici nell’indoeuropeo sol-, che significa “intero”, “integro”. La stessa matrice linguistica ha generato parole come “salvare”, “salvo”, “salvezza”. Nell’antica Roma, salus non indicava semplicemente l’assenza di malattie: era un concetto molto più ampio, che abbracciava il benessere generale, la conservazione, la sicurezza. Era così centrale nella vita dei romani che avevano persino una dea dedicata, Salus, protettrice tanto del singolo quanto della collettività.
Nel corso dei secoli, la parola ha mantenuto questo doppio respiro, fisico e spirituale. Nel Medioevo, quando le malattie venivano spesso interpretate come punizioni divine, salute del corpo e salvezza dell’anima erano inseparabili. I guaritori erano figure religiose, e la cura passava attraverso la preghiera tanto quanto attraverso i rimedi. La salute era una questione di integrità totale, non solo di funzionamento biologico.
Questa idea di integrità si riflette anche in un legame etimologico inaspettato: quello tra sale e salute. Nell’antica Roma, i soldati ricevevano parte del compenso in sale, da cui deriva la parola “salario”. Il sale era prezioso perché essenziale per conservare gli alimenti e quindi per la sopravvivenza, ma veniva usato anche per disinfettare le ferite. Ciò che serviva a mantenere in vita diventava simbolo di cura e prosperità. Oggi la scienza ci invita a moderarne il consumo, eppure l’etimologia continua a ricordarci che il rapporto tra cibo e benessere è radicato nella cultura umana da sempre.
Ed è qui che entra in scena il brindisi. Perché quando alziamo un calice diciamo proprio “alla salute”? La tradizione ha origini antichissime e, secondo alcune fonti, anche inquietanti. Nel Medioevo, quando gli avvelenamenti erano una pratica diffusa nelle corti, far tintinnare i bicchieri faceva schizzare il liquido da un recipiente all’altro: se uno era avvelenato, lo sarebbero stati tutti. Dire “alla salute” era quindi un augurio di protezione dal veleno. Nelle culture antiche greche, invece, brindare significava offrire una libagione agli dei: si versavano le prime gocce di vino per terra, come dono divino, poi si beveva augurando benessere ai presenti.
Quasi tutte le culture del mondo hanno una forma di brindisi legata alla salute, anche se con sfumature diverse. In Germania si dice “Prost”, dal latino prosit, “che sia di beneficio”. In Russia, “Na zdorovie” accompagna discorsi elaborati che culminano nella rottura del bicchiere. In Giappone, “Kanpai” significa “svuotare il bicchiere”, un invito a vivere pienamente l’istante. In Francia si dice semplicemente “Santé”, alla salute. Nonostante le differenze, il gesto rimane universale: un momento di condivisione, un augurio positivo, un riconoscimento della fragilità e della bellezza del vivere.
Anche quando salutiamo qualcuno che starnutisce diciamo “salute”, e non è casuale. Durante la peste nera del Trecento, lo starnuto era considerato uno dei primi sintomi della malattia. Dire “salute” a chi starnutiva era letteralmente un augurio di sopravvivenza.
La salute, per i filosofi antichi, era sinonimo di equilibrio. I greci parlavano di eucrasia, l’armonia degli umori che costituiva lo stato di benessere perfetto. Aristotele la considerava una forma di virtù, un punto medio tra eccesso e difetto. Arthur Schopenhauer, secoli dopo, avrebbe scritto: “La salute non è tutto, ma senza salute tutto è niente”. È la condizione che ci permette di perseguire qualsiasi altro bene. Ma proprio qui emerge il paradosso: quando la ricerca ossessiva della salute diventa essa stessa una prigione, non stiamo tradendo il suo significato originario?
Questa domanda ci porta dritti al presente, a quel terrorismo mediatico che dipinge ogni comportamento come potenzialmente letale. Il vino, in particolare, è finito nel mirino. È vero che l’alcol in eccesso fa male, questo è un fatto scientifico innegabile. Ma esiste una differenza enorme tra abuso e consumo moderato e consapevole. Un bicchiere di vino bevuto durante un pasto condiviso con persone care non è solo un atto di consumo, è un momento di socialità, di rallentamento, di piacere. E questi aspetti hanno un impatto reale sul benessere complessivo.
Viro Vino nasce proprio da qui: dall’idea che il vino non sia solo un prodotto, ma un linguaggio culturale capace di raccontare le parole che usiamo ogni giorno. Questo progetto, che ha preso forma prima come canale YouTube e ora anche come rubrica su LoScribo.it, esplora ogni settimana una parola attraverso la lingua, la storia, la musica, il cinema e la filosofia, usando poi il vino come chiave di lettura. Il vino non è il protagonista assoluto, ma un modo per entrare in contatto con le esperienze e le emozioni che le parole custodiscono. Dopo vent’anni nel mondo del vino e una vita dedicata alle parole, questo spazio vuole esplorare le connessioni tra i due linguaggi, perché le parole agiscono dentro di noi: conoscerne il senso ci aiuta a essere più lucidi, consapevoli e maturi.
E allora penso a mia nonna, che qualche mese fa ha compiuto cento anni e continua a bere due dita di vino a pranzo e a cena. Non solo sta benissimo fisicamente, ma ha una lucidità mentale straordinaria. Fa ancora la pasta con le sarde, un capolavoro assoluto. Non sto dicendo che il vino sia l’elisir di lunga vita, ma forse possiamo considerare che una vita di moderazione, piacere consapevole e assenza di stress sia più salutare di una vita di privazioni ossessive.
Perché è proprio questo il rischio della nostra epoca: trasformare la salute da mezzo a fine. Non si cerca più la salute per vivere bene, ma si vive per essere sani. E questa inversione ha generato nuove forme di patologia. L’ortoressia, l’ossessione per il cibo “puro”, che porta a carenze nutrizionali e isolamento sociale. La vigoressia, l’ossessione per l’attività fisica compulsiva, con rischi di infortuni e squilibri ormonali. L’ipocondria salutista, la paura costante di ammalarsi che genera ansia cronica e, paradossalmente, danneggia la salute stessa.
Non si tratta di ignorare le raccomandazioni mediche, che vanno sempre ascoltate e rispettate. Ma dobbiamo essere consapevoli che il sensazionalismo mediatico, la ricerca di visibilità o un approccio eccessivamente rigido possono trasformare messaggi utili in forme di terrorismo psicologico.
La salute, tornando all’etimologia, riguarda l’essere integri, completi. E questa integrità include anche la gioia di vivere, il piacere della convivialità, la libertà di concedersi piccoli piaceri consapevoli. Un calice di vino bevuto con moderazione, apprezzandone i profumi, i sapori, la storia millenaria che rappresenta, condividendolo con le persone care, è forse uno di quei piccoli piaceri che rendono la vita più ricca senza comprometterne la qualità o la durata.
Come diceva Ippocrate, il padre della medicina: “Fa’ che il cibo sia la tua medicina e la medicina il tuo cibo”. E a volte, aggiungo io, anche un buon bicchiere di vino può essere una medicina. Per l’anima, per lo spirito di convivialità, per la gioia di vivere che, alla fine, è parte integrante della salute stessa.
Quindi, la prossima volta che alzerete un calice, ricordate l’antica saggezza contenuta in quella parola: salute. Non è solo un augurio di benessere fisico, ma di pienezza di vita. Alla salute, dunque.


















