Il giorno dopo i funerali, Giorgio Tranchida, il marito di Maria Cristina Gallo, rompe il silenzio e affida al Corriere della Sera il suo dolore. Le sue parole, intrise di amarezza e verità, cadono come macigni, pesanti, impossibili da ignorare: «La malattia certamente era complessa, ma il ritardo con cui è stata scoperta ci ha tagliato le gambe. Il cancro aveva mesi di vantaggio. A lungo abbiamo chiesto l’esito della biopsia che le era stata fatta durante l’intervento chirurgico a Mazara. All’inizio ci dicevano di non preoccuparci, che sarebbe arrivato. Ci eravamo convinti che era tutto negativo e che non rispondevano perché non c’era nulla di grave. Tutto questo è andato avanti mesi, fino a quando mia moglie ha cominciato a sentirsi male e abbiamo deciso di fare altre indagini. Davanti all’ennesimo rimpallo abbiamo fatto intervenire un avvocato».
Il suo caso non era isolato come si scoprirà in seguito «Una persona dell’Asp di Trapani a un certo punto le ha detto: “Ma di che ti lamenti? Mica sei l’unica”. A quel punto lei ha cominciato a chiedere ad altre donne operate nel suo reparto, a pazienti di Mazara, di Castelvetrano… ed è venuto fuori che i casi erano migliaia e che in 350 referti c’erano diagnosi di tumore».
Ad oggi, le istituzioni non hanno mai chiesto scusa, ed è questo forse uno dei tasselli più amari della vicenda, nessuna presa in carico dei vergognosi ritardi, nessuna parola, cosi Giorgio: «Nessuno ci ha chiesto scusa. Nessuno, né dalla politica né dai vertici dell’azienda sanitaria. L’unica persona che ci è stata accanto è Giorgio Mulè (vicepresidente della Camera, ndr), amico di una vita. A essere sinceri nessuno ci ha neppure offerto aiuto e, mi creda, in questi mesi abbiamo fatto la spola con Milano affrontando anche costi importanti. Noi comunque abbiamo potuto farlo, in tanti immagino si siano dovuti rassegnare».
La speranza a questo punto, che il sacrificio di Cristina non sia vano, così l’ultimo pensiero del marito al termine dell’intervista al Corriere della Sera. «Cristina ha offerto la sua sofferenza alla collettività fino all’ultimo. Non ci siamo abbandonati alla disperazione durante la malattia e non lo faremo ora. Glielo dobbiamo. Io sono certo che le coscienze sono mature, che il tempo della rassegnazione è finito. Certe cose non possono più essere accettate. Non possiamo consentirlo più, io non ci sto, i miei figli non ci stanno».


















